Fortuna che, tanto, era estate. Stare all’aperto non comportò un grosso disagio. La gente di Terni la seconda metà di luglio del 1960 dovette passarla fuori di casa, in una tenda da campeggio o in baracche approntate alla bell’e meglio; quelli che ce l’avevano nella roulotte. A tenerli fuori di casa fu la paura del terremoto.
Era la notte del 18 luglio. La città, nonostante fosse tempo di vacanze, era ancora affollata dato che per le ferie si aspettava il 1. agosto e la “fermata” delle acciaierie. Quella domenica parecchi avevano gioito: Gastone Nencini aveva chiuso da trionfatore il Tour de France (e a Terni il ciclismo era sport seguitissimo) e il governo Tambroni stava annunciando le dimissioni. Le Olimpiadi di Roma sarebbero cominciate pochi giorni dopo.
Poca roba: i dati ufficiali parlarono del crollo di alcuni comignoli e di una croce di travertino che stava davanti la chiesa di San Pietro, in corso Vecchio; furono rilevate alcune lesioni agli edifici della Banca d’Italia e del Municipio (che allora era in piazza del Popolo), ma si trattava di costruzioni – fu specificato – che ancora sopportavano le lesioni dei bombardamenti di più di quindici anni prima. Ci fu anche un ferito: un pensionato di 60 anni che in via Eugenio Chiesa saltò dalla finestra di casa: roba da niente avrà pensato visto che abitava al primo piano. Invece si fratturò tutte e due le gambe.
Si misero in moto tutti i servizi di emergenza, mentre le scosse continuavao a susseguirsi: negli spazi verdi disponibili si rizzarono piccoli gruppi di tende, tra le quali spiccavano, qua e là, quelle con teli mimetici distribuite dalla Fabbrica d’Armi. Chi poteva si allontanò da Terni raggiungendo parenti e conoscenti nei dintorni, in campagna. Si ripeteva l’esperienza degli sfollamenti al tempo dei bombardamenti. I due terzi dei ternani lasciarono la città, qualcuno anticipando le vacanze. Una settimana dopo s’erano contate più di cinquanta scosse, tutte di intensità tale da essere chiaramente percepite dalla popolazione. Hai voglia gli esperti, giunti – ovviamente – da Roma, a ripetere che si trattava di scosse di assestamento e che non ci sarebbe stata catastrofe: i discorsi tra gli “attendati” erano ispirati dal timore che cresceva al ripetersi delle scosse e da certe “verità” riportate dai soliti “bene informati” i quali arrivarono diffondere la notizia che gettava luce su quanto accadeva: la turbolenza tellurica annunciava che la montagna di Cesi stava per diventare un vulcano.
Nonostante la preoccupazione, ed i timori di ogni genere da parte delle “autorità”, la città rimase abbastanza tranquilla: i servizi pubblici continuarono ad essere regolari, mentre una lieve contrazione fu registrata – chissà perché – nella vendita dei frigoriferi. Ma c’era persino chi, noncurante di tutto, la sera se ne andava al cinema. Pochi, però: si parlò di una media di una trentina di biglietti staccati ogni sera.
Poi, all’improvviso, la terra tornò tranquilla. Al 30 luglio era “quasi” ufficialemente finito il pericolo. Il 1 agosto i giornali annunciavano che da 48 ore non c’erano scosse. E poi, ormai era arrivato il 1 agosto: tutti al mare.
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