Cultura e tecnologia, la passione e l’orgoglio di Aldebrano Micheli

Aldebrano Micheli generale

Nei giorni scorsi è scomparso, sconfitto dalla pandemia, il Generale Aldebrano Micheli. Tra le tante espressioni di cordoglio, c’è quella del Sindaco di Terni che parla a nome della città. Nell’esprimere le condoglianze il Sindaco Leonardo Latini ha ricordato “il grande contributo fornito come militare e come studioso alla città ed il suo grande interesse per la storia della Fabbrica d’Armi di Terni alla quale il generale Micheli ha dedicato lunghe ricerche e importanti pubblicazioni”.

A “tradirlo” fu il modo di camminare: passo lungo con leggerissimo e quasi impercettibile piegamento del ginocchio di appoggio quasi a slanciarsi in avanti, testa inclinata un poco sulla destra, sguardo curioso ma non sapevi dire se quando ti guardava ti vedeva o no, Ma ti vedeva. L’aria burbera, che a conoscerlo si rivelava più che altro un atteggiamento collegato al ruolo, all’abitudine alla vita militare, o chissà cos’altro.  Quell’ufficiale che arrivò alla Fabbrica d’Armi di Terni, lì trasferito verso la metà degli anni Ottanta, richiamava alla memoria qualcuno che conoscevi da tempo. Appariva fisicamente diverso: pochi capelli, due baffoni ed un pizzo rigoglioso ad incorniciare il volto, qualche chilo in più.  Ma la camminata… Era lui, quel giovanotto biondo che una ventina di anni prima frequentava il liceo scientifico Galilei. Era cresciuto a Terni, Aldebrano Micheli. Quel nome di battesimo richiamava la Valnerina ternana e la zona di Ferentillo dove sono diversi coloro che portano nomi di battesimo che sono retaggio culturale di quella presenza Longobarda durata centinaia di anni e che aveva in Ferentillo uno dei suoi baluardi. Ternano, quindi, Aldebrano Micheli, cresciuto nella famiglia di un dipendente della Fabbrica d’Armi, dell’Esercito. Ed era destinato all’Esercito, fin da giovanissimo. Dallo scientifico ternano, all’accademia militare di Modena, ufficiale del Servizio Tecnico, poi laureato anche in fisica nucleare, specializzato nelle tecniche di difesa dalle armi radioattive, materia che divenuto generale, insegnò alla scuola europea della Nato.

Quando arrivò a Terni aveva il grado di maggiore, aveva ricoperto incarichi di comando su altre piazze militari. Alla Fabbrica d’Armi, diventata nel frattempo Stabilimento Militare per la manutenzione delle armi leggere, avevano ammassato casse di rottami: pistole, fucili, baionette, equipaggiamenti ormai in disuso. Rottami, sì, ma per gli altri che li stavano per mandare alla fusione, Non per lui. Per l’allora maggiore Micheli quello era un patrimonio storico-culturale. Lì in mezzo, c’erano tutte o quasi le versioni del fucile ’91 ad esempio; alcune molto particolari: dal moschetto con finiture in oro sulla cassa che fu di un ras etiopico, al fucile di precisione usato da Lee Oswald nell’attentato al presidente Kennedy, costruito proprio a Terni. Passando per le versioni utilizzate dai reparti dell’esercito, il ’91 “lungo”, quello con baionetta ripiegabile per la cavalleria, la versione più piccola per i Balilla, quella gli Alpini.

Aldebrano Micheli non ci stette a pensare troppo. Procurò tutte le “carte” necessarie e lavorò personalmente al recupero, al restauro, a tutto ciò che era necessario per salvare, recuperare e valorizzare un pezzo di storia italiana: quanti soldati lo imbracciarono quel fucile; quanti gli affidarono la  possibilità di salvarsi mentre erano chiamati a difendere l’Italia in guerra. E quale tecnica seppe sviluppare l’ingeno militare italiano; e quanta professionalità avevano coloro che quei fucili li costruirono.

Da lì nacque il primo nucleo, il “nocciolo duro” del Museo delle Armi, che c’è, esiste proprio grazie a Micheli. Un’esposizione particolare – certo – che ha dovuto e seguita a dover fare i conti con mille difficoltà e che resta lì, visitabile solo con particolari procedure che sembra non sia possibile snellire. Non solo il moschetto ’91, ovviamente. C’è pure tutto il resto, molto del resto della storia dell’Esercito Italiano da quando era Regio a quando diventò esercito della Repubblica.

Era la passione di studioso, la molla che muoveva Aldebrano Micheli, che lo spingeva a conoscere sempre più di una materia di cui probabilmente era uno dei maggiori esperti anche fuori dall’Italia. Ma anche a conoscere molto delle capacità dell’industria italiana del passato e non per caso si occupava di archeologia industriale nell’ambito del centro studi “Malfatti” di Terni . Non personava una politica che “ha trasformato una nazione ricca, acculturata, ed industrialmente fortissima” in un “deserto economico, sociale, deindustrializzato e terzomondificato!”, come scrisse sul suo profilo social. Un impregno perseguito con serietà. E passione, messa in atto con la pazienza, la minuzia, la precisione di un monaco amanuense. Nel vero senso della parola. Micheli è stato autore di alcuni testi vergati  a mano, con calligrafia “artistica”, ricchi di disegni tecnici. Uno proprio sul “Fucile Modello 1891”, un altro sulla storia della “Regia Fabbrica d’Armi”, ed altri ancora. Opere d’arte nel verso senso della parola. Frutto dell’applicazione, della passione, della cultura, della sapienza di un uomo cui la vita non ha risparmiato esperienze dolorose, affrontate con coraggio e naturalezza seppur nella sofferenza in una battaglia, ha scritto, che combatto “consapevole che non vincerò”. Sempre con quel passo lungo e deciso, con quella testa leggermente inclinata sulla destra, con quell’espressione burbera. Apparentemente burbera