Terni: per il Comune è una città senz’anima e senza storia

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La Fiera del Cassero? A Borgo Rivo, ovvio. E’ più comodo, funzionale, ci sono parcheggi (forse). Ma la Fiera del Cassero è un po’ più di un semplice mercato, di una sfilza di bancarelle. Non è, la Fiera del Cassero, un mercato del mercoledì che si tiene ogni settimana al Foro Boario, riproposto magari dopo un imbellettamento di circostanza. La fiera del Cassero si chiama così – sia detto per i non ternani che ci governano – perché si è fatta per secoli dalle parti del Cassero un’antica fortificazione che si trovava sul fiume Nera, in corrispondenza di Ponte Romano. Quella fortezza, in verità, i ternani non la sopportavano e più volte – col passare dei secoli – la abbatterono dopo che in diverse occasioni questo o quel “padrone della città”, trovatosi di turno, ne aveva imposto la costruzione e poi la ricostruzione dopo ogni abbattimento.
I ternani, evidentemente erano più “aperti”, nemici degli arroccamenti ed anzi favorevoli allo scambio e ai commerci. Quale luogo, quindi, più favorevole per tenere una fiera se non il punto in cui la città si legava alla strada Flaminia? La Flaminia, ossia la strada che fu uno dei principali collegamenti tra l’Europa, il nord Italia e Roma, percorsa da centinaia e centinaia di viandanti…
Che senso ha la Fiera del Cassero tenuta dalla parte opposta della città?  E’ che ormai va tutto così, sembra, in questa Terni che si vorrebbe funzionale, moderna al punto che tutto quello che è stato fatto prima del 1990 è vecchio anche se alcune volte è invece antico, caratterizzante della città, della sua immagine, del suo essere. Magari bisognoso di un intervento di restauro, di una cura manutentiva. E’ chiaro che è molto più facile prendere la ruspa di un amico e buttar giù tutto. Piazza pulita, “tanto verde” dicono i fans appecoronati al piccolo ras di turno.
Spostare tutte le fiere cittadine al Rivo. Abbattere tutti gli alberi per piantarne di  nuovi (ma quando?); buttar giù un pezzo – piccolo, intendiamoci – di storia industriale spendendo una cifra esorbitante con la quale – probabilmente – si poteva mettere tutto in sicurezza.
E dulcis in fundo la grande “pensata” di chiudere tutte le scuole del centro cittadino e concentrarle in un unico complesso in periferia. Più comodo, dicono. Ma senz’anima. Con conseguente sradicamento dei bambini e dei ragazzi dall’ambiente cittadino, dalle sue varietà tra quartiere e quartiere. Come per i pini di Lungonera: giù tutto. Ma massificare la cultura cittadina, il senso antropologico, il rapporto tra le persone e il mondo che le circonda ed in definitiva l’essenza di una comunità di essere umani, non può che richiamare scenari che si credevano scomparsi del tutto, insieme alle dittature dei paesi del socialismo reale.