Terni 1921: l’operaio Giovanni Manni assassinato dai fascisti

Manni
Giovanni Manni

di SERGIO BELLEZZA

Il 16 settembre di cent’anni fa cadeva in via Mentana Giovanni Manni, operaio comunista di soli 19 anni, colpito da pugnale assassino durante  una  colluttazione coi fascisti. Era il primo omicidio politico nel clima torbido e lugubre del tempo, in una città a forte presenza operaia e capace per questo di resistere alle provocazioni delle camicie nere e alle prevaricazioni delle squadracce.

I fascisti umbri avevano già investito Terni con le loro spedizioni punitive, forti della loro presunzione, che sostituiva alla ragione la prepotenza, alla parola il manganello, violenza e dittatura a libertà e democrazia. Alle loro bravate s’opponevano gli Arditi del Popolo, un gruppo consistente, organizzato in città da Carlo Farini e di cui faceva  parte pure Giovanni Manni.

Il giovane, aveva abbracciato l’ideologia socialista, era transitato nel PCd’I dopo la scissione di Livorno, e viveva con passione la propria militanza politica, professando con esuberanza e spavalderia le proprie convinzioni.

La sua morte, come si legge su “L’Unione Liberale” del 17 settembre 1921, “impressionò vivamente la città di Terni”, che vedeva morire per la prima volta uno dei suoi figli nella contesa politica. Confermava soprattutto che i fascisti, come rilevava Pietro Nenni, “[…] ad una guerra di parole rispondevano con una guerra di violenza e di sangue”.

Unanime il cordoglio in campo politico e sindacale, che manifestarono l’intenzione di scioperare in occasione dei funerali. Proposito rientrato, secondo la testimonianza di Agamante Androsciani, al tempo giovane comunista e appartenente agli Arditi del Popolo, dalla decisione di trasportare il feretro al cimitero, di notte e scortato da carabinieri. Secondo il foglio fascista “L’Assalto” lo sciopero rientrò dopo che i dirigenti della Camera del Lavoro, “[…] erano stati fatti ravvedere a suon di bastonate”. A completare il quadro, l’assassinio rimasto impunito: il Tribunale di Spoleto infatti condannava per reati minori, gli imputati Ferdinando Pierucci e Eugenio Carocci, ma li assolveva dall’imputazione dell’omicidio di Giovanni Manni. Il fascismo del resto non poteva permettere che suoi accoliti fossero condannati e pretese che sul fatto delittuoso cadesse l’oblio.

 Al contrario invece “i compagni comunisti” fecero di Giovanni Manni un simbolo, intitolandogli nel ’25 la cellula all’interno delle Acciaierie. Alfredo Filipponi, salito in montagna a condurre dopo l’8 settembre la lotta partigiana, battezzava col nome del “martire antifascista” un battaglione della Brigata Gramsci. 

Sulla sua tomba si leggeva: “Non sotto questa nera zolla/ Dovevi finire la tua gioventù/ Straziata da ferro omicida/ Ma ascendere libero e forte/ Nel trionfo della vita […]”; iscrizione che la espose allo scherno e  all’oltraggio durante il ventennio. A novembre del ’37 la Questura di Terni ordinava addirittura la rimozione della lapide, sostituita all’indomani della Liberazione da quella che recita “[…] Caduta la tirannide/ I compagni ricordano ai posteri / GIOVANNI MANNI/  quale simbolo dell’idea che non muore”. Restaurata dall’ANPI ne ha accompagnato i resti nella nuova sistemazione all’interno della Cappella dei garibaldini, dove riposano congiuntamente le  spoglie di patrioti e martiri della Resistenza, come a costituire un ponte ideale tra Risorgimento e Guerra di liberazione. Nel centenario della morte l’Associazione San Valentino Borgo Garibaldi e l’ANPI di Terni, hanno stampato  una cartolina ricordo di Giovanni Manni e dettato una lapide da apporre sul luogo dell’assassinio.