Pd umbro sotto inchiesta, il reato più grave non è da codice penale

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Massima fiducia nell’operato della Magistratura, come dicono tutti. Ma questa storia perugina fatta di concorsi truccati, di “catene di santantonio”, di utilizzazione del potere non è che un dato, l’ultimo, a segnalare l’ineluttabilità di una catarsi necessaria per il Partito Democratico umbro. Una purificazione che più voci da tempo si alzano a chiedere. Sia dall’interno del Pd, sia da parte di coloro che hanno perso la fiducia in un partito che, in Umbria, non ha lasciato spazio a niente che non fosse la macchina per il mantenimento e l’uso del consenso. Chi ha perso la fiducia è diventato spesso astensionista, chiuso nel proprio particolare o, cosa ben più considerevole, un nemico.

Eppure quante volte, negli interventi di vari esponenti o nei commenti degli osservatori, è apparsa la critica verso un Pd chiuso a discutere e battagliare nelle stanze invece che in piazza a cercare di rendersi conto delle aspettative, le esigenze, le richieste, gli orientamenti della cittadinanza?

Probabilmente si è pensato di conoscerlo il mondo che sta intorno, ma è una conoscenza filtrata e a volte deformata. Non reale. Una visione politica influenzata dai problemi rappresentati da “questuanti”, clienti e indirizzata a fidelizzare consensi e voti, mediante la soddisfazione di esigenze a volte minime, particolari, di singoli o di gruppi ristretti.

A superare una gestione così improntata della politica e dell’amministrazione pubblica non è bastato lo schiaffone degli elettori ternani, né quelli presi a suo tempo a Perugia e in altri centri più o meno importanti dell’Umbria. Né hanno fatto suonare un campanello d’allarme le sconfitte clamorose subite di qua e di là in collegi senatoriali “sicuri” o da liste costruite tenendo conto del “borsino” delle preferenze. E neppure il fatto che – sicuramente per problemi differenti – il Pd, a livello nazionale, non è riuscito a costruire e far passare tra i cittadini una proposta chiara, precisa che andasse incontro alle esigenze della collettività.

Si è continuato imperterriti ad agire secondo schemi che, si è dimostrato con le elezioni 2018, non hanno respiro. Si sono evitate le disamine franche e coraggiose su quanto era accaduto e perché; si è continuato a riciclare quasi sempre gli stessi personaggi lasciando, prima e dopo la primavera ’18, campo libero al dilagare di una destra che ha saputo far leva sullo scontento, sulle paure, sul qualunquismo, sull’acredine accumulata dagli individui.

Fidelizzare voti, favorire i “clienti” ha comportato ripercussioni negative: chi si è sentito sfavorito ha reagito; l’attività politica si è ridotta alla ricerca dei mezzi per soddisfare le richieste, siano state avanzate da professionisti, imprenditori, o da semplici cittadini che lamentano la lampada bruciata di un lampione o chiedono una “palata di catrame sul passo davanti casa mia”.

Un politico impegnato in queste attività è portato a battersi con le unghie e coi denti per acquisire potere, per essere un capobastone pronto a fare e disfare alleanze con altri capibastone e col “diavolo” pur di avere in mano e in tasca quel pacchetto di preferenze la cui consistenza aggiorna di continuo. Cose che maturano nel chiuso delle stanze, nelle riunioni ristrette e – per certi versi – esclusive. Non in piazza. Con un esercizio che ha richiesto il sacrificio di tante energie non indirizzate, invece lo studio, l’esame e la valutazione dei problemi, la ricerca di soluzioni eque per la maggior parte della comunità.

La caccia al voto, al consenso porta a tener fermo tutto com’è. Ed è caccia a volte spietata, che brucia chiunque non fa parte di quel sistema, che bolla come pericolose le “teste pensanti”, che diventa in diverse occasioni esplosioni di “fuoco amico” devastante. Da qui deriva un’azione politica che non dà risposte, non “agguanta” le questioni più spinose, senza ambizioni, senza un progetto o un tocco di fantasia, persino. Incapace di promuovere un sentimento di fiducia, o almeno di contenuto ottimismo sull’esistenza di prospettive. Che si limita a guardare verso il basso.

Questo il vero “reato” di cui deve rispondere il Pd umbro. Non è scritto nel codice penale (quelli toccano a chi di dovere), ma un reato sociale, politico e storico che rischia di cancellare sacrifici, impegno, ideali, lotte. Riportando l’Umbria indietro di parecchi decenni.