Malore a Spoleto: Louis Armstrong tra la vita e la morte

 


«E’ stato solo un brutto raffreddore»
disse, con la voce roca e un sorriso a sessantadue denti, Louis Armstrong ai giornalisti che l’avevano aspettato all’aeroporto di New York. «Ci vediamo la prossima settimana _ aggiunse _ al Lewisohn Stadium, al concerto in cui festeggerò il cinquantanovesimo compleanno».
Minimizzava, Armstrong, ma il malore che l’aveva colpito a Spoleto fece stare in ansia per una settimana tutti gli amanti di jazz del mondo. Perché tutti i giornali del globo parlavano del re del jazz ricoverato d’urgenza, alla fine di giugno 1959: Satchmo s’era sentito male non appena messo piede nell’albergo di Spoleto, appena arrivato da New York. Il festival dei Due Mondi, alla seconda edizione ma già evento di portata mondiale, era in pieno svolgimento. La sera dopo avrebbe dovuto tenere un concerto gratuito. Invece…
Si pensò ad un attacco di cuore, invece alla prima accurata visita, si stabilì che a mettere a terra Louis Armstrong era stata una polmonite. I medici dell’ospedale di Spoleto si sentivano addosso miliardi di occhi. Per prima cosa chiamarono un’infermiera che conosceva perfettamente l’inglese: il paziente parlava poco, ma quel poco che diceva era d’obbligo capirlo bene. Ad assisterlo c’erano la moglie Lucille, l’amico John Smith (praticamente Mario Rossi), il suo medico personale Alexander Schiff che l’aveva accompagnato in Italia.
Polmonite, quindi. Sembrava tutto a posto, tanto che l’orchestra di Armstrong decise di esibirsi ugualmente anche se senza di lui. Satchmo avrebbe dovuto restare qualche giorno sotto cura, magari in una clinica specializzata di Roma dove si pensava di trasferirlo. Invece la notte all’improvviso peggiorò, cadde in stato di semincoscienza: non parlava, non riconosceva chi gli stava vicino. Il primario spoletino, professor Tramontana, accorse, scortato dal dottor Schiff. Prestarono le cure del caso, chiamarono per un consulto uno specialista da Roma. Armstrong fu posto sotto una tenda ad ossigeno. Era emergenza, insomma.
Le condizioni restarono gravi per tutto il giorno. Alla sera fu diffuso un bollettino medico: “Armstrong è sofferente di malattia polmonare acuta in soggetto con enfisema cronico dovuto al fatto che ha suonato la tromba per 45 anni. Non ha sofferto di attacco cardiaco e non è mai stato in coma”.
La situazione era più chiara, ma la preoccupazione restava. Impossibile trasferire il malato a Roma. Nelle ore successive si susseguirono altri due collassi, la febbre restava costantemente alta, quaranta gradi. Poi Armstrong s’addormentò.
E fu la prova provata del detto che una bella dormita fa passare tutto… Si svegliò alle sette, la mattina dopo: volle un caffè e tre o quattro bibite ghiacciate che scolò una dietro l’altra. «Credevate di avermi spacciato, eh? Ma io sono una palla, quando batto per terra rimbalzo subito in aria». Era di nuovo in forma. Tanto da mettersi a fare battute, e a discutere con l’infermiere che voleva somministrargli le supposte («Only for mouth», solo per bocca gli urlò). Era anche compiaciuto che quando avevano creduto che ci lasciasse le penne in tanti si erano ricordati di lui: all’ospedale di Spoleto il portiere aveva un crampo alla mano a forza di firmare sul registro del postino che gli consegnava i telegrammi. Tra di essi quelli di Duke Ellington e Dizzy Gillespie. Poi cominciarono le visite: Giancarlo Menotti, ovviamente, per primo; poi quella, graditissima per Satchmo, di due componenti della sua orchestra che stavano per prendere l’aereo e tornare a New York. Lui rientrò qualche giorno dopo. Il “raffreddore” era passato.
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