Cimarelli, così muore un partigiano

 

Torremaggiore Cimarelli
Il cippo che ricorda il sacrificio di Germinal Cimarelli a Monte Torre Maggiore (Foto di Giocondo Talamonti)

20 gennaio 1944, sulla montagna di Torre Maggiore sopra Cesi, i tedeschi accerchiarono una formazione di partigiani. Lo scontro a fuoco fu immediato. Uno dei partigiani ordinò ai compagni di fuggire mentre lui, imbracciato un mitragliatore, cercava di sbarrare la strada ai tedeschi. Una lotta impari. Così morì quel giorno poco prima delle tre del pomeriggio Germinal Cimarelli, trentadue anni, molti dei quali dedicati alla lotta per la libertà.
Nato nel luglio del 1911, giovanissimo entrò alle acciaierie e subito aderì al partito socialista e poi a quello comunista. Nel 1936 fu uno delle decine di operai arrestati per aver diffuso volantini e organizzato una colletta a sostegno del Fronte Popolare spagnolo. Un’operazione che fu oggetto di proteste e sdegno da parte dell’Unità, il giornale clandestino del Partito Comunista, specie quando si diffuse la voce (infondata) della condanna a morte di cinque degli arrestati. Cimarelli, ritenuto uno degli organizzatori, fu condannato al confino. Prima alle Isole Tremiti, poi a Ponza, dove restò fino alla caduta del fascismo, il 25 luglio del ’43. Scarcerato e tornato a Terni si rifugiò in montagna quando, dopo l’8 settembre. “Con Cimarelli e qualche altro partigiano – ha ricordato in uno scritto Marino Rossi, classe 1919 – il 13 settembre 1943, andammo nella zona di Colleluna e a Maratta a recuperare armi abbandonate da soldati di una batteria antiaerea sbandato dopo l’8 settembre. Presso il rifugio antiaereo della Fabbrica d’Armi recuperammo altre armi nascoste da operai patrioti”. Fu il momento in cui si costituì la formazione partigiana che si attestò sulle montagne sopra Cesi e di cui Germinal Cimarelli fu commissario politici. Cominciarono con l’attacco a un treno alla stazione di Giuncano, nella Valserra: trasportava viveri e sale che distribuirono alla popolazione..
La posizione su cui si erano attestati era strategica: da lì potevano operare sul versante verso San Gemini-Portaria-Acquasparta; verso Cesi; verso lo spoletino e la Valserra. E non si fecero pregare. Soprattutto con azioni di disturbo e sabotaggi. “Frequenti erano le piccole azioni del distaccamento – ha raccontato Leone Cataldo, il partigiano che era al fianco di Cimarelli, quando fu ucciso – Spesso tagliavamo i fili delle linee telefoniche tedesche; altre volte si capovolgevano i segnali stradali per trarre in inganno le truppe tedesche”. Immancabili i chiodi a tre punte sparsi sulla strada. Ma ci furono anche azioni di altro “peso”: “A Cesi si assaltò – ancora Cataldo – un magazzino di vestiario fascista per rivestire i partigiani; vicino Portaria si attaccò, con nutrito fuoco, una macchina piena di ufficiali tedeschi, di tanto in tanto si minava la strada principale con bombe rudimentali”. Leone Cataldo ha raccontato (in un libro-fotocopie dei primi anni Novanta in cui l’Anpi di Terni raccolse una serie di preziose testimonianze) anche di quel giorno, il 20 gennaio 1944. “Quasi sulla cima della montagna ci trovammo accerchiati. A questo punto, anche su consiglio di Cimarelli, non rimase altra alternativa che scappare e mettersi in salvo nel folto della boscaglia. Cimarelli ed io riparammo in un anfratto. Col mitragliatore cercammo di fare un fuoco di sbarramento per fermare i tedeschi che sparavano da tutte le direzioni. Terminate le munizioni del mitragliatore, Cimarelli mi ordinò di mettermelo in spalla e fuggire per mettermi in salvo. Riuscii miracolosamente a fuggire, nascondendo l’arma per noi preziosa e poi dirigendomi verso Carsulae e da qui a San Gemini. Cimarelli, nel tentativo di trattenere per qualche istante  ancora i tedeschi, continuò a far fuoco col moschetto e lì cadde”.
Si sbandò la formazione partigiana. Germinal Cimarelli ne era stato l’anima. Bastò la sua presenza a renderla importante nello scacchiere delle formazione garibaldine, per la stima e il rispetto di cui godeva lui che, se non ne era il comandante militare, era comunque molto apprezzato negli ambienti partigiani per la risolutezza e il coraggio mostrato fin da quando volle a tutti i costi rinunciare al compito assegnatogli di collegatore tra i partigiani umbri e i comandi di Firenze e Roma. Lo si riteneva più adatto a quel compito anche perché aveva seri problemi alla vista. Ma lui fu irremovibile: volle essere impegnato con le armi in mano. E soprattutto per questo motivo la sera stessa della sua morte fu deliberata l’assegnazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare. La motivazione è illuminante: “Dopo l’8 settembre fu tra i primi a insorgere contro l’invasore. Comandante di un distaccamento partigiano, durante un potente rastrellamento tedesco, allo scopo di evitare la distruzione del suo reparto in procinto di essere accerchiato, ne ordinava il ripiegamento che proteggeva, rimanendo al suo posto, col fuoco di una mitragliatrice diretto contro i tedeschi incalzanti. Quale sfida al nemico issava il tricolore e dopo una lunga ed impari lotta, crivellato di colpi, cadeva da eroe sull’arma salvando così con suo cosciente sacrificio tutti i suoi compagni”.
Come tutte le motivazioni del genere non manca la retorica. Celso Ghini, allora ispettore delle Brigate Garibaldi dell’Umbria, Lazio e Marche stilò un rapporto più prosaico. Secondo Ghini i partigiani commisero, nei giorni immediatamente precedenti l’attacco, una serie di errori. Il comitato federale – scrisse, in sostanza, Ghini – aveva avvisato il comando della formazione che i tedeschi avevano in animo di fare rastrellamento nella zona di Monte Torre Maggiore. Due donne avevano riferito al comando tedesco, acquartierato a Cesi in casa Eustachi, della presenza in montagna e dell’andirivieni in paese di alcuni uomini armati. La banda fu sollecitata a spostarsi rapidamente in un’altra zona. Ma l’operazione non fu compiuta con la necessaria prontezza. Solo qualche giorno dopo, il 20 gennaio, si decise di procedere. Ma con calma – stando a quanto contenuto nel rapporto – persino perdendo tempo prezioso con una pausa-pranzo a mezzogiorno mentre almeno un’altra ora passò nella ricerca di un mulo da soma. Si fu pronti a muoversi alle due del pomeriggio, ma a quel punto ci si dilungò in una discussione tra commissario politico e comandante militare del gruppo sulle modalità di fuga. Alla discussione il soldato, un russo evaso dalla prigionia, che sarebbe dovuto restare di vedetta. Germinal Cimarelli, il quale sosteneva che una parte degli uomini avrebbe dovuto aspettare i tedeschi per arrecare loro delle perdite, volle almeno compiere un atto simbolico “in quel momento inopportuno”, disse Ghini: volle piantare una bandiera rossa sul posto. Mentre si accingeva a compiere l’operazione, piombarono addosso al gruppo i tedeschi sparando all’impazzata e uccidendolo.

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