1907: la “Serrata” delle acciaierie

serrata 1907

2 aprile 1907

«Licenziamenti alle acciaierie di Terni? Stabilimenti fermi? Gente che prende su e decide di andarsene a lavorare lontano? Pericoli per l’ordine pubblico? Non posso fare nessun diktat, non posso dire alla fabbrica quel che deve fare». Rispose così il primo ministro ai rappresentanti dei lavoratori e al sindaco di Terni che gli chiedevano un intervento risoluto. «Certo, cercherò di favorire un accordo perché il mio compito è assicurare l’ordine pubblico e la libertà di lavorare», aggiunse Giovanni Giolitti. Era lui, nel 1907 il capo del governo italiano.
Eppure la faccenda era complicata. L’azienda aveva cercato di imporre una decisione unilaterale, i lavoratori l’avevano respinta. Erano seguiti, nell’ordine: il licenziamento di 24 operai; lo sciopero conseguente, la chiusura dei cancelli da parte della direzione. Tutti a casa fino a che non avessero sottoscritto di accettare il volere dell’azienda. Era la “serrata”. 3.500 operai rimanevano senza stipendio. Considerati i componenti delle loro famiglie mezza Terni non aveva con che comprare il pane quotidiano.
Era l’atto finale di una vertenza cominciata due anni prima, nel 1905, quando gli operai chiesero alla direzione della “Terni” una revisione del regolamento interno che risaliva al 1897. Un regolamento che non teneva conto del cambiamento del tipo e della quantità di lavoro né della necessità di rivedere alcune regole vessatorie. Tanto per dirne una: lavorare di notte comportava solo più pericoli, ma nessun riconoscimento in busta paga.
Passò un anno e nel giugno del 1906, non essendo giunta risposta, gli operai tornarono alla carica minacciando uno sciopero. E, di fronte al mutismo, sciopero fu. Uno sciopero duro, che andò avanti per due mesi, con danni pesanti per l’azienda, ma anche per i lavoratori rimasti senza paga. Alla fine si trovò un primo accordo: entro il 31 marzo 1907 la “Terni” avrebbe presentato un nuovo regolamento.
E così fece, in effetti. Solo che, nel consegnare il documento ai dipendenti, la direzione lo accompagnò con l’invito a sottoscriverlo così com’era, senza discutere: prendere o lasciare.
“Lasciare”, decisero i lavoratori, anche perché quel regolamento era insostenibile. Conteneva solo una serie di regole ferree la cui mancata osservazione concedeva al “padrone” il diritto di licenziamento in tronco.
Era il 2 aprile 1907. Quel giorno cominciò una lotta dura e difficile. La “Terni” spense i forni e chi s’è visto s’è visto. Se qualcuno ci ripensava, poteva andare a lavorare, ma prima doveva passare per le forche caudine e firmare il regolamento.
Seguirono giorni difficili. La città era in ginocchio. La mobilitazione fu totale. Il sindaco, Vittorio Faustini andò a Roma per conferire con il presidente della “Terni” Orlando ed il primo ministro Giolitti. Con lui c’erano il senatore ternano Paolano Manassei e una delegazione dell’associazione dei commercianti che, per parte sua, era scesa subito in campo a fianco degli operai. La risposta di Giovanni Giolitti fu quella già esposta: lui poteva – in sostanza – fare solo l’arbitro imparziale. Non dimenticava di essere alla guida di un governo liberale che non prendeva in considerazione interventi da parte dello Stato, suscettibili di “turbare” il libero mercato e la libera impresa.
Ebbero un bel da fare i parlamentari socialisti nell’organizzare manifestazioni e comizi sia a Terni, al Foro Boario o nel grande cortile dell’ex convento di Santa Caterina, sia a Roma. Tutto sembrava cadere nel nulla.
Nel frattempo era scattata la macchina della solidarietà: organizzazioni operaie, lavoratori di tutta Italia organizzarono collette e raccolte, ma la situazione restava difficile. In parecchi decisero di lasciar perdere con le acciaierie ed andarsene a lavorare altrove: a Monza o a Torino, ma non alla Fiat la quale fece sapere ufficialmente che operai provenienti da Terni non li avrebbe accettati. Altri decisero di andare al’estero: alla fine di maggio quasi trecento erano i passaporti ritirati da operai della Terni che avevano deciso di varcare la frontiera.
La città era in stato di assedio: plotoni interi di carabinieri e polizia per assicurare l’ordine pubblico. Eppure non mancarono episodi di fortissima tensione. Come quello che vide coinvolte le donne ternane: scesero in strada per evitare che ci fosse chi rompeva il fronte dell’unità dei lavoratori. Ogni giorni infatti circa duecento tra capi operai, impiegati e crumiri varcavano i cancelli della fabbrica.
Le donne ternane si misero di picchetto al Ponte D’Oro e a viale Brin, vicino ai due ingressi delle acciaierie. Bloccando chi voleva entrare in fabbrica e ricorrendo, quando ce ne fu il bisogno, a maniere certo poco femminili: Ci furono dirigenti presi per il bavero e tirati giù dalle automobili su cui arrivavano; ad altri vennero buone le gambe per scappare, inseguiti, fino a Cervara, almeno un chilometro distante. Ci furono arresti. Ma alla Camera dei Deputati il primo ministro restava fermo sulla propria posizione: mediatore equidistante.
Novantatré giorni durò la serrata. La Terni alla fine, nel regolamento inserì alcune richieste dei lavoratori. Irremovibile fu sui licenziamenti: quei 24 andarono a casa, seppur con un indennizzo di 35mila lire.
E’ passato più di un secolo, ma sembra storia molto recente.

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