La città, nell’ottobre 1953, era allarmata. La mobilitazione e la rabbia furono direttamente proporzionate all’esasperazione, alla preoccupazione per il futuro di Terni. Sciopero generale, richiesta di ritiro delle lettere di licenziamento, tensione. La reazione fu uno spiegamento di forze: polizia e carabinieri furono mobilitati e la città posta in pratica in stato di assedio. Erano altri tempi. Tempi di conflitto sociale Anche se è sempre conveniente mantenere la calma, usare la forza della ragione.
Gli uomini del sindacato, primo fra tutti il segretario della Fiom Arnaldo Menichetti, riuscirono a riportare la calma. Ma furono tre ore difficili. Il bilancio ufficiale, riferito in Senato il giorno dopo dal sottosegretario agli interni fu il seguente: tre civili ricoverati, due erano stati feriti da colpi di arma da fuoco (uno all’intestino ed era in gravi condizioni, l’altro alla bocca); la terza, una donna, era stata picchiata alla testa col calcio della pistola. Dieci i feriti tra le forze dell’ordine: due ufficiali, sei guardie di pubblica sicurezza, due carabinieri. Colpiti da sassi. 56 i fermati.
Quando c’è da difendere il lavoro, la dignità, la libertà non sempre si riesce ad agire solo con diplomazia.
Anche allora, come oggi, l’acciaio della Terni era un prodotto strategico per l’Italia, eppure lo Stato che, attraverso l’Iri, ne era proprietario ridimensionava drasticamente la fabbrica e di conseguenza i livelli di produzione. Oggi, mentre l’acciaio resta per l’Italia una produzione strategica, la fabbrica è della ThyssenKrupp. Oggi sono loro, i tedeschi, a volere un drastico ridimensionamento. Allora si usciva “sfilacciati” dalla guerra; oggi si è alle prese con una crisi economica che sembra produrre effetti, quantomeno, della stessa portata.
Gli operai di Terni, l’intera economia cittadina e umbra, sono ancora una volta sottoposti a una prova difficile, aspra. Oggi come nel 1953, ma anche come negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, e poi nel 2005 con la vicenda del magnetico. Ogni volta Terni ha affrontato con dignità e con fermezza i momenti difficili. Ogni volta rinunciando a qualcosa: alla polisettorialità, ad alcune produzioni (dall’energia alla chimica, dalla fonderia al magnetico), a posti di lavoro. La sua economia ha corso seri pericoli e con essa quella dell’Umbria intera.
Le varie attività del gruppo Terni, tra cementerie, miniere, chimica, centrali, vedevano impegnata _ direttamente o indirettamente _ tutta la gente umbra, oltre a larghe fette del mondo del lavoro delle province di Rieti e L’Aquila, dal Vomano, alle zone del Salto e Turano, a Campotosto. Gli occupati della piccola galassia Terni erano, per rendersi conto di quale impatto sociale ebbero certe riorganizzazioni industriali, 19.800 nel 1946; quasi ventiduemila nel 1947 per passare poi dai 17.700 del ’48 ai 10.600 del 1953. Nel solo comparto siderurgico si era scesi dai 7.800 del 1947 (picco massimo dell’occupazione), ai 3.800 del 1953.
Ugualmente 7.800 erano gli occupati alle acciaierie anche alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso. L’arco di tempo è senz’altro più lungo, ma già dopo la chiusura del magnetico (2005) l’occupazione è scesa fino a oscillare tra i 2.700 e i 2.900 dipendenti.
I nuovi, pesanti, programmi di ridimensionamento occupazionale, organizzativo e di assetto hanno, oggi, a livello sociale, un impatto negativo come quei duemila licenziamenti di allora. Certo, oggi a rendere meno drammatica la situazione per alcuni lavoratori ci sono gli “ammortizzatori sociali”. Ma a fronte del depauperamento tecnologico e produttivo della fabbrica, la caduta dei livelli occupazionali e le ovvie ripercussioni fortemente negative sull’indotto e sull’economia cittadina e umbra già decisamente in crisi, non c’è ammortizzatore sociale che tenga.
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